Squid Game – Recensione

Recensione di Squid Game, la serie coreana in streaming su Netflix.

Alla fine ci siamo cascati anche noi e abbiamo visto Squid Game, e continuiamo a chiederci come diavolo abbia fatto questa serie a diventare un così tale fenomeno di massa! Soprattutto considerando che non è per niente qualcosa di innovativo od originale, e il genere dei survival con concorrenti costretti a competere in giochi mortali dovrebbe essere già stato sviscerato abbondantemente presso il grande pubblico grazie a titoli come Hunger Games, e solo pochi mesi fa sempre su Netflix è uscita la prima stagione di Alice In Borderland, che essenzialmente era la stessa cosa con le dovute differenze. Come se non bastasse Squid Game non è nemmeno stata doppiata, a differenza di Alice, quindi trovo davvero incredibile, per non dire spropositato ed esagerato, il successo che la serie coreana sta riscuotendo.

La serie scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk non si inventa niente di nuovo, il genere dei survival con giochi mortali esiste da svariati anni, basti pensare a film come Rollerball o Death Race, passando per The Running Man di Stephen King, ma facile immaginare che questi titoli se li ricordino solo gli appassionati. E se davvero la serie nasce una decina di anni fa ma nessuno prima di Netflix l’ha voluta produrre devono davvero ritenersi fortunati del suo successo, perché Squid Game arriva con tremendo rimando sui nostri schermi, il genere dopo i vari Battle Royale, Hunger Games e Maze Runner dovrebbe essere stato ben assimilato dal pubblico di massa, e invece inspiegabilmente viene accolto come fosse una cosa mai vista prima, sul serio. Per non parlare delle polemiche su un presunto plagio al film As The Gods Will di Takashi Miike tratto dall’omonimo manga.
Ma tolto questo si tratta comunque di una serie ben realizzata, scritta piuttosto bene, con personaggi che definirei furbi, nel senso che ha quelli che ti fanno affezionare ed empatizzare quanto basta e quelli che si fanno odiare, certe scelte narrative sono urlate ai quattro venti sin dall’inizio e prevedibili, altre un po’ meno o comunque non ci vuoi credere tanto sarebbe scontato, ed ha una discreta cura registica ed estetica, pur giocando con pochissime location, discorso a parte per la recitazione tipicamente orientale che ormai ho capito essere troppo distante dai noi per poterla giudicare con i nostri canoni.
In una parola: funziona, pure troppo per quel che è realmente la serie. E continua a dimostrare come la Corea del Sud sia un paese da tenere sottocchio.
Forse il vero pregio di Squid Game sta nel mettere in mostra le grosse disuguaglianze sociali di un paese come la Corea, anche questo tema in realtà è già stato trattato nel film Parasite, miglior film agli Oscar 2020. E proprio come nel film di Bong Joon-ho ha il pregio di non trattare il tema con quella retorica stucchevole tipicamente occidentale per cui i poveri sono sempre vittime, esattamente come la famiglia Kim i partecipanti di Squid Game sono persone che non hanno la volontà di cambiare la loro condizione sociale, con la differenza che essenzialmente il protagonista della serie è una brava persona di fondo, indipendentemente dai motivi che li hanno portati a quella condizione, e solo mettendo a rischio la loro vita faranno i conti con le loro scelte e li porterà ad avere un’evoluzione, perché questi giochi per bambini trasformati in un massacro riescono a far uscire l’animo delle persone, tra chi comprenderà di aver gettato via la propria vita e chi invece continuerà a sprofondare nella propria oscurità.
In questo mio sproloquio cosa vogli dire? Che Squid Game è una buona serie e merita indubbiamente uno sguardo ma che il suo successo andrebbe decisamente ridimensionato, per intenderci e rimanere sempre in oriente e nello stesso genere forse Alice In Borderland meritava un po’ più di attenzione da parte del pubblico, senza strafare chiaramente, e Squid Game un po’ meno. Ma forse, più probabilmente non è nemmeno più il pubblico a decidere chi o cosa sarà un successo, probabilmente siamo solo pedine manipolabili e sacrificabili in un gioco più grande di noi chiamato marketing.

Classificazione: 3.5 su 5.

Pubblicato da Alberto P.

Classe 1985. Polemista. Revanscista. Seguace della Chiesa Catodica. Amante del buon fumetto since 1994.

6 Risposte a “Squid Game – Recensione”

  1. Serie furba in tutta i sensi, è riuscita con un po’ di buona fotografia e look facili , caratteristici (da cosplayare e riconoscere con poco) a rendere un concept già visto e ormai pure vecchio quasi nuovo. Il vero trampolino di lancio lo ha comunque dato il fatto di essere su Netflix, probabilmente ci fosse stato un Battle Royale al suo posto sarebbe diventato un caso lo stesso, anche se continuo a pensare in parte che ha aiutato il non essere tratto da un manga o da un romanzo per giovani adulti perché in questo modo non si porta dietro i pregiudizi tipici di una parte di pubblico verso questi due generi, nonostante poi il risultato sia lo stesso (perché, insomma.. è molto mangoso). Oggettivamente è coinvolgente e semplice da seguire, insomma non si può dire che sia un brutto prodotto o che non meriti attenzione, tuttavia è stata un’attenzione spropositata, esagerata e direi ormai esasperante! Esasperante poi dover pure difenderlo dalle mamme pancine o dai padri invisibili che pensano che la violenza dei loro dolci bambini o ragazzini dipenda da una serie tv quando invece vivono quotidianamente nella violenza reale tra menefreghismo, egocentrismo, irresponsabilità, arrivismo etc. Si chiedano piuttosto perché dal 2010 ad oggi vadano molto prodotti che essenzialmente non presentano mai un futuro e se lo presentano non è mai buono ma buio , incerto e lontano…. ah già, perchè il mondo reale è così! Forse se invece di scandalizzarsi qualcuno si ponesse le domande giuste, allora certi prodotti aiuterebbero davvero la realtà.

  2. Già Elio Petri negli anni 60 (un secolo fa) diresse un film simile sul tema. Parlerei di qualcosa che viene da lontano, molto lontano che si è fatto genere cine e TV. Ho smesso dopo due puntate. Puntare sul voyuerismo con una spruzzata di sociologia e un pelo di narrazione di protagonisti.

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